#OP
Il proliferare di Manifesti legati alle arti generative che stiamo vivendo negli ultimi anni pare rivelarsi un momento senza eguali nel passato. La vastità di argomenti e temi non sembra essere ancora definita. Le applicazioni dell’AI riguardano singoli codici (o parti di essi) di singole discipline, più tutti gli aspetti della fruizione e della diffusione (marketing, audience design, distribuzione, ecc.). In sintesi tanto l’opera quanto chi ne fruisce. Quindi combinazioni, approcci e utilizzi sono potenzialmente infiniti. Se a tutto ciò aggiungiamo le necessarie riflessioni etiche, politiche, economiche, sociali e il diritto d’autore, è chiaro che di Manifesti ne serviranno parecchi.
La sensazione è quasi di essere sbarcati su un nuovo pianeta, dove bisogna ricostruire da zero la società/cinema avendo a disposizione tutto ciò che sta tra la ruota e le intelligenze artificiali generative che creano contenuti (video, immagini, testi, musica, ecc). Infatti i Manifesti, come le riflessioni più strutturate di studi e saggi intorno all’arte generativa, che trattino massimi sistemi o elementi molto circoscritti, hanno in comune una cosa. Lo sforzo comune è quello di cercare delle vie, di creare delle strutture. Non definire regole ma perimetri e intenti per muoversi in un mondo infinito e in espansione. Si tratta anche di fare esercizi, in un campo che ha una storia estremamente compressa, tanto breve quanto densa. C’è un comprensibile (malcelato) entusiasmo e la ricerca di condivisione. Quest’ultima indispensabile poiché lo sviluppo degli strumenti generativi e la creatività artistica sono quasi sempre sensibilità diverse. Il feedback continuo tra i due è necessario a entrambi. Chiunque prima o poi, nel cercare di approfondire la materia, che sia applicata all’audiovisivo come per ogni altro settore, andrà a sbattere contro pagine di formule matematiche inintelligibili.
Non essendo ingegneri, matematici, informatici, filosofi ma semplice gente che guarda i film, prendiamo qui argomenti a noi più vicini, di cui forse conosciamo una piccolissima parte. Ritagliamo un limitato appezzamento da esplorare. Il cinema breve. L’Italia. Per farlo useremo un Manifesto che non tratta l’arte generativa, ma vogliamo forzare un po’la mano con dolo.
Cyber-realist manifesto di Andrea Gatopoulos è un punto di sintesi, l’arrivo di un percorso che che parte dalla fine del secolo scorso sul rapporto tra cinema, game engines, videogiochi. Contemporaneamente è un punto di inizio nel suo essere (qui la nostra forzatura), applicabile anche al cinema e l’AI, agli sviluppi che ne verranno. La licenza di rileggere il Manifesto la prendiamo usando l’ultimo film dello stesso autore, evento speciale di apertura dell’ultima Settimana Internazionale della Critica, a cui dobbiamo il plauso (anche) per aver concesso all’autore di uniformare il logo SIC al lettering del film, diventando parte integrante dell’opera stessa. The Eggregores’ Theory (Ita 2024, /n, 15′).
Il primo utilizzo di spazio virtuale, per la creazione di un contenuto audiovisivo autonomo in forma breve, comunemente riconosciuto è Diary of a Camper (United Ranger Films, 1996).
In quella genesi c’è già molto (se non tutto), della sottocultura dei Machinima. Sarà sicuramente il pregiudizio del nostro retroterra cinematografico, o la nostra ignoranza, ma non riusciamo proprio a identificare quel tipo di creazioni come un genere, o peggio come opere. Esperimenti, non arte sperimentale. Fase necessaria e preziosa perché senza quel passaggio trasformativo oggi non avremmo tanto cinema breve di capace ci creare senso, linguaggio, pensiero, analisi del reale, politica, usando i videogiochi e i game engines come codice primario. Per intenderci usando esempi più noti, senza il calice amaro dei Machinima oggi non potremmo godere dell’opera(to) dei Total Refusal (il caso più sofisticato e meritevole di approfondimenti), o film come The Grannies (Marie Foulston, 2019), Happy New Year, Jim (Andrea Gatopoulos, 2022).
Certo fa quasi più impressione della sottocultura stessa sapere che il più celebre dei critici cinematografici, Roger Eberts, abbia scritto dei Machinima nel giugno del 2000: “The Ghost in the Machinima. Will the use of video game technology to make movies result in art or kitsch?“.
Oggi possiamo dire che quella fase sia conclusa. Gli esperimenti di Machinima hanno avuto il grande merito di fare il primo passo, necessario, l’uso trasformativo. Infatti ad appropriarsene sono stati soprattutto gamer. Il secondo, quello creativo/critico, preso in mano da registi/autori è stato definito dalle opere, sintetizzato e contestualizzato dal Cyber-realist manifesto. Una sintesi politica, sociale, filosofica, semiotica, che obbliga a evitare fraintendimenti e, secondo noi, indica una via anche per l’arte generativa e il cinema. Sicuramente l’atto politico/creativo è applicabile tanto al cinema/gaming che al cinema/AI.
Curioso, e non casuale, notare come i principi di condivisione e appropriazione di spazi abbiano radici lontane, nel secolo scorso. Li ritroviamo infatti nelle riflessioni dedicate a internet e alle comunità online già nel 1999 (David Wilcox): “Principles of cyber-realism“, “A manifesto for online communities“.
La differenza è che Wilcox tratta di (cyber)spazi virtuali/sociali, Gatopoulos integra la riflessione/azione con l’audiovisivo, il cinema, l’arte in generale. Forte di opere già definite, affermate, che stanno resistendo alla prova del tempo, capaci di stimolare nuove complessità dei film che verranno.
Arte Generativa. Due film brevi. Fantasmi. Eggregore.
“Per quanto riguarda l’arte in generale, ho il sospetto che il cinema industriale utilizzerà l’intelligenza artificiale per compiti che in precedenza coinvolgevano più persone”. “Intervista ad Andrea Gatopoulos, il regista che rivoluziona l’industria” (Taxi Driver, 6 dicembre 2023).
Amen. sposando questa citazione risolviamo di netto le applicazioni AI e cinema mainstream.
Arte generativa e formato breve, essendo il nostro piccolo campo, vanno circoscritti a casi specifici. Eliminiamo subito l’utilizzo citato prima per il cinema industriale, ovvero quello che serve a ridurre forza lavoro. Eliminiamo anche i video, corti, realizzati in toto con Sora e simili. Quindi brevi clip, uno o due minuti, full AI da testi. Un mondo in evoluzione continua, al punto da riuscire a carpire differenze e migliorie quasi mese per mese. Ad oggi, i format che richiedono la piena creazione/invenzione dei contenuti, sono i meno strutturati, i più incerti, mancano di un senso centrato. Viceversa i più avanzati sono quelli che partono da fatti, personaggi e luoghi della realtà contemporanea, per mischiarli. Creando le più improbabili delle miscele. Clip in grado di divertire, di fare il punto critico e grottesco di un momento o un episodio. Quasi vignette in movimento, meme al cubo (The Dor Brothers).
Un fenomeno dagli sviluppi imprevedibili, da seguire, che oggi manca di quello spessore autoriale in grado di riconoscere una visione del creatore, la sua lettura critica del presente stratificata, un’idea del linguaggio, una poetica.
Di quel che resta prendiamo due esempi, scelti anche per la differenza estrema tra di loro nel modo di confrontarsi con l’arte generativa, nel processo, nel pensiero e, inevitabilmente, nel risultato.
Ghosts (2021, col, 8’40”) di Vadim Epstein ci serve perché esiste già una recente analisi, una prima storicizzazione, tanto sofisticata e precisa quanto convincente, di cui faremo uso.
The Eggregores’ Theory (Ita 2024, b/n, 15′), il già citato ultimo film di Andrea Gatopoulos.
Se i Machinima li abbiamo considerati come esperimenti, Ghosts di Vadim Epstein invece va oltre, possiamo inserirlo nella tradizione delle opere sperimentali, sposando in pieno Material Films in the Age of Artificial Intelligence. Some Remarks on Automated Creativity in Contemporary Experimental Film (Christoph Seelinger, 2024).
Cinema o videoarte che sia, così l’autore (regista?), anzi il ‘multimedia vandal, numeric taxidermist’ racconta, meglio spiega, l’opera:
“Multidomain image-to-image transforming neural network StarGAN2 has been used here recurrently, reprocessing its own output without additional inputs. The models have been trained on both figurative imagery and abstract art, to enrich and intensify visual & semantic experience. Moreover, part of the training data was synthetic itself: few source datasets were generated with custom StyleGAN2 models, adding another layer of mediation to distance it even farther from the real.
What we eventually get is an ever-changing shape-shifting loosely controlled abstract flux, which appears more lifelike and expressive on its own, than obscure resemblance of the origin flesh, stuck in the neural convolutions”. (Vadim Epstein su Ghosts, 15 ottobre 2021).
La GAN (Generative Adversarial Network/Rete Generativa Avversaria) è un modello di machine learning in grado di generare dati da sola, attraverso la competizione di due reti neurali artificiali: “…the generator, has the task of generating real-looking data, while the other, the so-called discriminator, is supposed to identify the generated data as real or artificial. Through constant learning andmany iterations, the results are emancipating themselves more and more from their appearance as virtual reality. Accordingly, the generator produces data that the discriminator checks for artificiality on the basis of data sets taken from non-virtual reality.
The aim of the generator is to sooner or later produce data sets that the discriminator can no longer distinguish from real data. First, the generator produces random data, (for example, an image). The discriminator, whichwas previously trainedwith real data, (for example pictures), tries to recognise whether it is real or artificially generated data. In a second step, the discriminator returns its results to the generator network. The generator then tries to generate new data more similar to the real data, which the discriminator checks again. Since the two networks are logically coupled and train each other, both are involved in a continuous learning process.
With each iteration, the artificial data therefore becomes successively more akin to the real data (cf. Wiegand: 2018)”. Seelinger, 2024.
Più facile a vederlo che a leggerlo, come sempre con i film. Comprensibile come questo tipo di GAN abbia applicazioni nel restauro, nella creazione di fondali, di masse, ecc, grazie alla duplicazione, all’adattamento, all’omologazione.
Ghosts invece, utilizzando immagini molto diverse tra loro, risulta esattamente quello che ci si può immaginare, ovvero un morphing continuo dall’inizio alla fine. Da due immagini ferme ad una sola in movimento continuo. L’aspetto secondo noi più significativo dell’analisi di Seelinger è quello di aver tracciato una linea (che anche noi vediamo nitidamente) tra il film di Vadim Epstein e le opere cinematografiche di Birgit e Wilhelm Hein (Materialfilme 1968-1976).
Da lì a tornare a certe avanguardie e tanto cinema sperimentale il passo è breve.
Si tratta di casi in cui il senso non va ricercato nelle immagini in movimento in sé o nell’alchimia dell’insieme dei codici del linguaggio, ma nel processo di creazione. In questo caso l’autore ha sì il pieno controllo sul processo, su altri aspetti come musica, titolo, ecc, ma non sull’esito. Lo spettatore attraverso l’esperienza della visione apre questioni complesse, anche irrisolte, su ciò che sta vedendo, sul sistema attraverso cui viene esplorato un campo dell’audiovisivo. La conclusione a cui arrivano Scheugl and Schmidt jr. (A Sub-history of Film) studiando Birgit e Wilhelm Hein, in contemporaneità con la realizzazione e uscita dei film, è la stessa che possiamo applicare a Vadim Epstein: “Il contenuto dell’immagine non è equiparato al contenuto del film (come nel caso dei film narrativi), ma è un mezzo di progettazione autonomo che non è solo astratto dal contenuto, ma spesso anche come immagine. Significativamente, i primi film materiali sono anche i primi film astratti”. Subgeschichte des Films, Scheugl and Schmidt jr. 1974.
Opposto è invece The Eggregores’ Theory dove, malgrado l’utilizzo di Midjourney e Photoshop per la creazione/elaborazione delle immagini, non c’è nulla che sfugga al controllo dell’autore. Il film è costruito attraverso il contrappunto tra la narrazione del protagonista, la voce di David Rumsey (A Stranger Quest, 2023) e il fluire di immagini in bianco e nero senza movimento, generate con l’AI:
“…non è facile trovare una consistenza visiva. Però sicuramente non è difficile quanto realizzare un proprio stile d’illustrazione. L’autorialità in questo tipo di film non sta nella creazione delle immagini ma nella capacità di trovare un fil rouge curatoriale, nel metterle insieme. Io non ne rivendico nemmeno la proprietà. Domani le rilascerò tutte in dominio pubblico.
Sono generate dalla coscienza umana collettiva e come tali appartengono a tutti. Il merito sta nel trovare questi frame, nel metterli assieme, associarli a un percorso di scrittura”. Andrea Gatopoulos: “Presto l’IA entrerà in tutti i processi del cinema” (Cinecittà News, 30 agosto 2024).
Non c’è esperimento, non c’è sperimentazione. Ma un idea, un pensiero di partenza scolpito, messo in opera con un controllo totale del mezzo malgrado l’utilizzo dell’AI. A differenza di Ghosts, qui il senso non è il processo creativo, ma il risultato dalla combinazione di codici, dalla direzione d’orchestra, senza che uno di questi possa definire il film più di altri. Per codici vogliamo intendere tutto, non solamente i canonici che fanno parte del film, della componente audiovisiva (sceneggiatura, montaggio, musica, ecc). Crediamo oggi sia importante comprendere tutto, dal processo creativo agli elementi, i sistemi, la documentazione e la comunicazione che accompagnano un’opera. Quelli maggiormente utilizzati come poster, sinossi, trailer, pressbook, pagine dei social media, interviste dell’autore o membri della crew, ecc. E altri che possono esistere in episodi singoli, nel caso del film in questione il link da cui scaricare le ‘immagini generate dalla coscienza umana collettiva’ e il logo della SIC con il layout adeguato. Quest’ultimo episodio apre scenari e riflessioni molto affascinanti sul rapporto tra film, regista, festival, programmatori. Un incastro di elementi, modificarne uno qualsiasi significa il crollo dell’intera struttura. Al contrario di tanti film che sono rimasti dal setaccio della storia malgrado malgrado la regia. Dove il codice che regge tutto è uno solo, non importa quale. La recitazione ad esempio resta il caso numericamente forse più significativo. Film scadenti, regie anonime, didascalismo al servizio dell’attore. Totò a colori (Steno, Ita 1952, col, 95′) è l’attore. Totò è l’autore, la regia è irrilevante. Visto in bianco e nero non perde nulla. Esempi sono infiniti, a dimostrazione che l’autore non è sempre il regista, ci sono grandi film di registi scadenti.
The Eggregores’ Theory, tutte le sue parti, le opere precedenti e prossime, tutte le loro parti, il manifesto, il regista stesso sono una cosa unica.
L’appropriazione, artistica e politica, dell’arte generativa (tolta al Moloch) è lo stesso meccanismo che nel Cyber-realist manifesto viene applicato agli spazi virtuali del gaming:
“Cyber-realism means starting from the assumption that the virtual is a moment of reality and an expression of the nature of human beings and participates in the human condition, deciding its evolution and history. It is not a temporary phenomenon, nor a transitory fashion, but a part of the dynamic reality, which has always existed and is constantly evolving. Failure to analyze the virtual with artistic and cultural means handing over its keys to interested and violent powers, it means handing over the future of humanity to the oligarchic Moloch”. (Cyber-realist manifesto, Gatopoulos 2024)
Lo spazio del gaming è un ‘momento della realtà ed espressione della natura umana’ come lo spazio dell’arte generativa. Ci sono, ci saranno, saranno sempre più invasivi. La scelta è ignorarli, lasciarli ad altri. O appropriarsene, farne la nostra realtà, un nostro momento, come stanno facendo collettivi e autori in tutto il mondo, in Italia Gatopoulos. In un campo con meccaniche diverse, ma problemi e pattern molto simili, dobbiamo citare anche Alessandro Readelli e il suo percorso nelle arti immersive che lo ha portato a girare per primo un film intero con/nel metaverso (Altrove, oggi in produzione) .
The Eggregores’ Theory, a differenza di Ghosts, non approccia l’AI lasciando manovre sul risultato finale dell’opera. Ma la incastra in una struttura talmente rigida da riuscire a domarla, improgiornarla, a farne un mero strumento/codice come gli altri. Rendendo così del tutto ininfluente l’elemento aleatorio al di fuori del sistema del film. Le immagini create dall’arte generativa sono eggregore filtrate, distillate dal ‘gusto’ della collettività che tornano al servizio del singolo, dell’uomo, dell’autore.
Non a caso è (anche/soprattutto) un film sul metalinguaggio (quale opera significativa non lo è?), sulla capacità di adattamento dell’uomo a nuove sventure. Se ne Il nome della Rosa (Eco, 1980) lo strumento di morte e comunicazione era un oggetto fisico emblematico e metaforico come il libro, qui è la parola stessa, poi il linguaggio a portare sciagura, non c’è più bisogno del cinema, della materia. In ogni caso, l’uomo, nel circolo vizioso senza sosta tra la continua creazione di eggregore antagoniste a somma zero (quanto una GAN) del Moloch, il suo abbattimento, la ricreazione e un altro abbattimento all’inifinito, resta al centro di tutto:
“Cyber-realism is humanism in the 21st century” (Cyber-realist manifesto, Gatopoulos 2024).
Altro tema fondante del film è il rapporto, anzi il controllo che ha il potere (visivamente deformato e deformante) sul linguaggio, quindi sul pensiero e sulle azioni, sulla proprietà intellettuale. Nel manifesto, riferito sempre agli spazi virtuali del gaming, viene affrontata l’egemonia quasi nello stesso modo. In entrambi i casi, tutto ruota intorno all’appropriazione:
“Cyber-realism means treating the virtual spaces of video games and software as collective territories.
…
There is no cyber-realism without re-appropriation of virtual spaces and without the legitimation of one’s experience within them. In this sense, it is necessary to reject part of the intellectual property of everything that is too large to present a possibility of circumvention, such as operating systems, logos of big brands, video games, social media, platforms.
…
We cyber-realist artists are committed to ensuring that the virtual is not taken away from the real by the oligarchic Moloch to establish a hegemony protected from improper interpretations of intellectual property laws”. (Cyber-realist manifesto, Gatopoulos 2024).
Estrapolare parti dal testo completo funziona poco, non rende la profondità, la precisione nel permeare e andare al centro del tema e del momento, la sua capacità di sintesi ed efficacia. Va letto dall’inizio alla fine (come ogni manifesto). Nello stesso modo in cui sono costruiti di film di Gatopoulos, ogni elemento, anche quelli in apparenza più marginali, contribuiscono al senso del tutto.
L’arte generativa, i game engines come gli spazi virtuali, sono contraddizioni da attraversare. Sono contenitori, meccaniche, territori che hanno un potenziale enorme nella lettura critica del presente se filtrati e orchestrati da un autore con una poetica scolpita, che aiuta a muoversi nell’illusione di capire qualcosa del presente. Quel movimento è pensiero critico introspettivo e collettivo, un eggregora antagonista, un agire verso la maggiore consapevolezza che la tensione e la lotta dei due sistemi è tanto necessaria quanto inutile, senza risoluzione.
The Eggregores’ Theory è un’istantanea nella forma più aggiornata possibile di un processo ciclico:
“Se hai un’immagine di paesaggio che ti sembra perfetta, l’IA potrebbe suggerirtene altre simili, ma nel momento in cui saranno ovunque non saranno più belle e quindi questa prepotenza che l’IA ha di riprodurre il bello è una contraddizione in termini perché l’essere umano non sa cosa sia il bello, come il senso della vita”. “Intervista ad Andrea Gatopoulos, il regista che rivoluziona l’industria” (Taxi Driver, 6 dicembre 2023).
La realtà come la natura saranno sempre un passo avanti, pronte a coprirci di ridicolo in ogni attimo. Tutto ciò non significa rinunciare al movimento critico, alle appropriazioni di spazi, al pensiero. Quindi all’agire. Con l’esercizio creativo, per chi ne ha le capacità come gli autori. Oppure attraverso l’esperienza introspettiva e collettiva di chi ne fruisce, inserendosi nelle bagatelle senza le pretese di spostarsi di un centimetro dal proprio posto.
Alessandro Giorgio